Sempre più di frequente nel lavoro clinico capita di dover affrontare delle problematiche di coppia che hanno a che fare con il tema del tradimento.
Spesso nella stanza della terapia incontro coppie che improvvisamente hanno subito un trauma nella loro storia a due, che ha di colpo cambiato l’immagine che ciascuno aveva dell’altro, e che ha stravolto il progetto di vita che si stava conducendo assieme.
La lettura di un recente testo di Massimo Recalcati (“Non è più come prima – Elogio del perdono nella vita amorosa”- Edizioni Raffaello Cortina) mi ha stimolato alcune riflessioni in merito al lavoro terapeutico che affronto con coppie in crisi che stanno vivendo il dramma del tradimento.
Due miti dei nostri tempi
Va detto che i nostri tempi non sono particolarmente facili per il mantenimento delle relazioni di coppia di lunga durata. Questo anche per il progressivo consolidarsi di due “miti” molto in voga ai nostri giorni: il mito della libertà e quello della novità.
Come Recalcati ci ricorda, il primo mito vuole che l’individuo sia indipendente, autonomo, privo di debiti nei confronti dell’altro. È il mito dell’Uomo che si fa da sé, che si autodefinisce senza passare dalla relazione con l’altro. Questo mito cancella l’idea che ognuno di noi esiste e si definisce in quanto è in relazione con un altro individuo: l’idea che nessuno è un’isola, ma che ci costruiamo all’interno di appartenenze.
Il secondo mito esalta l’idea della ricerca della novità, nella convinzione che il benessere e la felicità risieda in ciò che ancora non si possiede. Questo mito nutre una continua rincorsa, nell’impossibilità di esaurire il desiderio, essendo questo sempre rilanciato in avanti nella ricerca del Nuovo.
Questa visione della gratificazione va ad alimentare anche una particolare visione dell’attrazione erotica, per lo più maschile: quella in cui il corpo dell’altra viene frammentato in dettagli anonimi (bocche, seni, piedi, vagine…) che diventano attraenti in chiave seriale e feticistica, del tutto svincolati dall’individuo al quale appartengono. L’altra diventa attraente in quanto ha un bel seno, o una bella bocca, in quanto portatrice di un dettaglio, e non per una sua particolare unicità che la rende ineguagliabile.
Questo ci porta a parlare di alcune caratteristiche relative al rapporto amoroso, che lo rendono unico rispetto agli altri tipi di rapporto umano, come ben delineato da Massimo Recalcati.
Il rapporto amoroso
Il rapporto amoroso possiede per sua natura alcune peculiarità che lo contraddistinguono, e lo rendono irripetibile.
Innanzitutto amare implica uno smarrimento.
L’Io dell’amante subisce una perdita di controllo, un indebolimento; amare significa perdere i parametri usuali della quotidianità, per molti versi presuppone la rinascita, il fondarsi di un nuovo orizzonte di senso.
L’amante subisce una mancanza dentro sé, non è più come prima, quando era autonomo, inserito nella logica dell’Uno, dell’individuo che basta a sé. L’amore apre un varco interiore, uno spazio, e consiste proprio nel dono di questa mancanza: “non sono più come prima, quando tu non c’eri”.
In questo senso avviene un ribaltamento del concetto di libertà: essa non è più intesa come autonomia, come uno svincolarsi dal legame con l’altro. Al contrario, in una logica di coppia, la libertà comprende il riconoscimento che io non sono autosufficiente, ma insufficiente. Il legame con l’altro apre la mia vita all’incontrollabile, mi espone alla vitalità dell’incertezza, ad una dimensione di cedimento ingovernabile.
L’altro apre in noi uno spazio unico, insostituibile, una dimensione che solo lui può occupare dentro di noi. Paradossalmente l’amore è donare non quello che si aveva prima, questo spazio nuovo che si crea grazie all’incontro con l’altro.
Proprio per questo spazio nuovo e unico che apre in noi, l’altro, l’oggetto d’amore, è insostituibile.
Recalcati ci ricorda che i singoli dettagli trovano senso all’interno di un individuo unico e speciale, troviamo il valore del dettaglio impersonale all’interno di un individuo a sé stante, non sovrapponibile ad un altro. Non si ama per una qualità, per qualcosa che l’amato possiede, ma per la particolarità che questo rappresenta in confronto a tutti gli altri.
L’amore non è fusionalità
L’amore sfugge alla logica della fusionalità e dell’appropriazione.
La relazione amorosa presuppone una logica di rapporto a due, che non può essere superata nella fusione, pena lo snaturamento dell’amore stesso. L’altro è, e sarà sempre, distinto da me. L’idea dell’amore come fusione ha più a che fare con la logica della simbiosi, nella quale si perde la tensione del rapporto con l’altro.
Nel caso della simbiosi non si può parlare di rapporto amoroso, ma di una versione perversa di esso, proprio perché viene a cadere la differenza, la distanza, l’alterità, tratti costitutivi del rapporto d’amore. Questo è evidente nei casi in cui arrivano in studio coppie nelle quali uno dei due membri vuole perdersi nell’altro, desidera un’unione che annulli le differenze.
Ma il rapporto amoroso non contempla neppure il concetto di appropriazione. Un amante che si vuole appropriare dell’altro nutre un’ulteriore versione perversa di legame amoroso. Egli vede nell’amato un oggetto da possedere.
In realtà l’amore si nutre proprio della libertà dell’altro. Appropriandosi dell’amato, “incarcerandolo” nella prigione del suo amore, toglie quella differenza, quella distanza che alimenta il desiderio. Una volta che l’altro viene ad essere incarcerato, posseduto, si spegne la spinta desiderante. L’altro diventa un oggetto, e, in quanto tale, non alimenta più la tensione erotica/affettiva che è la base del rapporto amoroso.
L’amore è ripetizione
Infine il rapporto amoroso che dura nel tempo implica la ripetizione.
L’amore che perdura resiste alla spinta del godimento fine a se stesso, che induce a cercare nel Nuovo la realizzazione della felicità. È un’illusione molto diffusa quella che fa credere che solo nel nuovo rapporto si potrà trovare la soddisfazione definitiva, solo in quello che ancora non si possiede.
Gli amori che resistono al logoramento del tempo sono quelli che trovano il modo di riadattarsi alle diverse fasi della vita, ai diversi cicli vitali, alle diverse sfide. Come per l’individuo, anche le coppie attraversano diverse fasi, a partire dall’innamoramento, per passare attraverso il consolidamento. Il lavoro della coppia è quello di una manutenzione continua, che si traduce anche nella ripetizione di rituali e abitudini quotidiane. Spesso la routine o la noia spingono l’individuo a cedere all’attrattiva del Nuovo, solo per poi trovarsi a ripetere gli stessi cicli evolutivi con un’altra persona, e trovandosi infine nuovamente annoiati. È una verità, invece, che le coppie che durano hanno trovato il loro modo speciale di rinnovarsi, attraverso la ripetizione della quotidianità.
Il lavoro del perdono
Va detto che il perdono ha molto a che fare con l’elaborazione di un lutto.
Fisicamente non è morto nessuno, ma è morto un progetto di coppia. È morta un’idea che ho dell’altro, un’aspettativa di vita che ho con lui/lei.
A differenza del lutto, l’altro esiste ancora, anzi si impone con tutta la sua realtà. Il trauma del tradimento si rinnova proprio per la presenza dell’altro. È impossibile dimenticare.
Per chi è stato tradito è impossibile liberarsi dal trauma, prenderne le distanze. Dal momento della scoperta del tradimento l’individuo subisce una perdita di senso, il mondo come era conosciuto prima si disgrega: egli non riconosce più l’altro, che gli sembra un alieno, e non si riconosce più in un progetto condiviso.
Proprio come nel lutto, anche il perdono è un processo di elaborazione interna. È il soggetto tradito, di fronte alla richiesta di perdono dell’altro, che deve decidere se eliminare definitivamente ogni prospettiva futura alla vita di coppia, o se rivitalizzarla.
Questa decisione passa attraverso un raccoglimento personale. Non dipende dal comportamento dell’altro. Certo, l’altro può impegnarsi a rassicurare che “righerà dritto”, ma, in ultima istanza è il soggetto tradito che deve maturare la possibilità di tornare ad amare. È il suo rapporto con questa possibilità che porta al superamento del trauma.
È per questo che il lavoro del perdono esige tempo, come nel lutto. È nel corso del tempo che la persona può ripiegarsi su se stessa e maturare una decisione di rinnovamento.
Personalmente diffido di decisioni troppo rapide relative al perdonare. Quando si perdona rapidamente sono in gioco altri meccanismi: la paura di perdere l’altro, quella di rimanere soli, il rischio di alterare degli equilibri familiari ormai consolidati e rassicuranti, l’incertezza per il futuro che ogni decisione di chiusura di un rapporto presuppone. Tutti questi motivi fanno propendere verso uno pseudo-perdono, un falso perdono, un adattamento a una situazione che, in profondità, non è risolta.
Come nel lutto, il perdono è un lavoro che va in direzione dell’oblio, compiuto dall’individuo in solitudine, al di là dei gesti riparatori dell’altro che vuole rimediare al suo sbaglio.
È un vero e proprio lavoro della memoria, che sbocca in due alternative possibili.
Un’alternativa è l’impossibilità del perdono: la presenza del traditore conduce all’inevitabilità della fine del rapporto, alla morte irreversibile dell’oggetto amato.
Oppure, al di là della presenza sempre attuale del trauma, attraverso un percorso interiore doloroso, la persona tradita sente di poter prendere le distanze da quell’evento, disinvestire da esso le sue energie psichiche, per dare nuova linfa vitale al rapporto di coppia.
Nonostante la ferita non scompaia, essa non blocca più la persona nelle sabbie mobili della depressione e della ruminazione.
Il mondo attorno è cambiato, ma è possibile rinnovare un progetto di vita con la stessa persona.
In questo senso il perdono è un lavoro della memoria: progressivamente il discorso interiore, che il soggetto conduce tra sé e sé, si distacca dal trauma e nutre la possibilità di un rinnovamento, di nuovo inizio, di una nuova gioia.